Di Vincenzo Vasile
Il Fatto Quotidiano
30.09.2009
Le pagine che seguono sono state appena estromesse dal processo d’appello in corso contro Marcello Dell’Utri, perchè
Dopo un’ora di interrogatorio Massimo Ciancimino chiede un rinvio all’indomani, promette di portare altre carte, e di spiegare meglio come mai in quell’appunto si parli di un “triste evento”, che sembra essere la minaccia di Cosa Nostra di sequestrare un figlio di Berlusconi. A le date non quadrano, particolari non combaciano. Solo l’indomani Ciancimino spiega di essere stato “impaurito” il giorno prima, non solo dalla stranezza di un documento trovato monco, ma perchè era “convinto che questo documento non venisse mai fuori: mi avete trovato non solo impreparato , più che altro impaurito, difatti come avete notato all’inizio ho addirittura detto che era la grafia di mio padre....”. macchè, non è né la grafia, né la prosa di Ciancimino, che non faceva errori di sintassi e grammatica. Si tratta di un “pizzino” di Bernardo Provenzano, che qualificandosi come il “signor Lo Verde” usava durante la latitanza il suo compaesano corleonese come mediatore in un complesso giro. Il pizzino sui “tristi eventi” fa parte di un gruppo di almeno tre lettere: la prima che risale al 1991-1992, è precedente alla redazione del famoso “papello” con cui Riina pretendeva la fine del carcere duro e misure draconiane contro i pentiti, fu ritirata a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, “una busta chiusa, non incollata”, nella villa di un braccio destro di Provenzano, Vito Lipari; un’altra in un’auto parcheggiata sotto lo studio di un medico e affidatagli personalmente da Provenzano; e una terza assieme a un pacco con 50 milioni, che Massimo poi distribuì ai fratelli. La lettera esibita dai pm durante l’interrogatorio dovrebbe essere, appunto, la terza. E’ indirizzata a Ciancimino sr., che in quel momento si trova in carcere, le altre due sono per il “dottor Marcello Dell’Utri”. Perchè Ciancimino veniva interpellato così spesso, sebbene agli arresti domiciliari e poi in carcere? “Per dare un parere”. Ciancimino era contrario a dar seguito alle minacce: sia le avvisaglie di stragi, sia la sfida dell’eliminazione del figlio del Cavaliere. “Io chiedevo a mio padre: perchè? Che c’entra il figlio?”, e papà conveniva che era meglio “toccargli il polso, tastarici u pusu” a Berlusconi, e in genere “alle persone”. “Nel senso di scuoterle”, cioè esercitare pressioni. Ma non passare al “braccio forte”. “Si preoccupava di non passare mai alla seconda fase”. “Mio padre era per la non attuazione delle minacce”, sebbene “il soggetto fosse irriconoscente” per certi favori, “certi vantaggi avuti, certe robe varie” che aveva ricevuto e non aveva ricambiato. Quale “soggetto”? Il dottor Berlusconi. Poi il padre si confida con Massimo: “era non dico rassegnato”, aveva un progetto per recuperare “un patrimonio elettorale che si stava disperdendo”, era come un “idealista”. Ma si sentì scaricato, proprio lui che “voleva essere l’uomo della chiusura, come il salvatore, che doveva siglare un nuovo patto”.
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