venerdì 2 ottobre 2009

E ANCHE CASA PAUND FA “COMING OUT”

INCONTRO A ROMA TRA UN’ASSOCIAZIONE DI ESTREMA DESTRA E IL MONDO GAY

Sì alle coppie di fatto e a progetti di convivenza basati su un vincolo affettivo. A prescindere dagli orientamenti sessuali. Luogo della discussione: la sede romana di CasaPound Italia, centro sociale di estrema destra con comunità sparse in tutta la penisola. Qui sono state ospitate associazioni gay e lesbo. Prese le distanze dai recenti episodi di violenza omofoba, CasaPound risponde con il tavolo di confronto alle polemiche sull’adesione alla fiaccolata di Roma del 24 settembre contro i razzismi e l’omofobia. In quell’occasione a remare per primo contro CasaPound fu il sindaco di Roma Gianni Alemanno, arroccato peraltro su posizioni meno avanzate in tema di diritti gay. I ‘neri’ di Iannone fanno invece un vero e proprio coming out riguardo l’onmosessualità, che fa arrossire anche molti della sinistra: una presa di posizione laica, occasione per un dialogo guardingo ma sereno, condotto con attitudine costruttiva e ascolto reciproco, non senza diffidenze e occhiate oblique da entrambe le parti. No fermo, però, alle adozioni per le coppie gay, senza alcun distinguo sull’omogenitorialità. Completamente ignorate le persone transessuali. Un dubbio, infine, sull’idea di buon gusto che dovrebbe ispirare la condotta delle coppie di fatto. Che sposterebbe il discorso della gestione delle identità sul piano di una discrezionalità e di un’ortodossia che, forse, tradiscono ancora rischi di incomprensione. “Vi presterò dei libri”, promette una ragazza lesbica, al momento dei saluti. Con qualche dubbio su come si possano conciliare apertura all’omosessualità e lotta al razzismo con le aperte nostalgie dei nonni fascisti.
Francesco Paolo Del Re
Il Fatto Quotidiano
02.10.2009

giovedì 1 ottobre 2009

"Io, sconfitto dalla mafia di stato"

1 ottobre 2009
De Magistris: “Punito perchè ho fatto solo il mio dovere”.

Al Sig. Presidente della Repubblica
Piazza del Quirinale ROMA

Signor Presidente, scrivo questa lettera a Lei soprattutto nella Sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. E’ una lettera che non avrei mai voluto scrivere. E’ uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute della democrazia nella nostra amata Italia.

E’ una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’Ordine Giudiziario.

Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione. Sebbene l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro – come recita l’art. 1 della Costituzione – non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati. Ebbene, io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che avevo sognato fin dal momento in cui mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli, luogo storico della cultura giuridica. La magistratura ce l’ho nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino. Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per diventare uditore giudiziario. Una gioia immensa che mai avrei potuto immaginare destinata a un epilogo così buio. E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche con umiltà ed equilibrio, la missione della mia vita professionale, come in modo spregiativo la definì il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti davanti al Csm. Per me, esercitare le funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana significava tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata. Quei cittadini che – contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti – sono tutti uguali davanti alla legge. Del resto Lei, signor Presidente, che è il custode della Costituzione, ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.

I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura – oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente – sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è nella loro memoria che ho deciso di sventolare anch’io l’agenda rossa di Borsellino, portata in piazza con immensa dignità dal fratello Salvatore. Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita debba dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo, anche a costo della vita. Per questo decisi di assumere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato: la Calabria. Una terra da cui, in genere, i magistrati forestieri scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece avevo deciso (ingenuamente) di restare.

Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40, lavorando mai meno di dodici ore al giorno, spesso anche di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare. Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto: rifarei tutto, con le stesse energie e il medesimo entusiasmo.

In questi anni difficili, ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, un gruppo di validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool. Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta, però, si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla de-legittimazione del mio lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni. Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze. Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, ma il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dalla stessa magistratura. Signor Presidente, a Lei non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e colleghi , revoche e avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle inchieste.

Ho condotto indagini nei settori più disparati, ma solo quando mi occupavo di reati contro la Pubblica amministrazione diventavo un cattivo magistrato.

Posso dire con orgoglio che il mio lavoro a Catanzaro procedeva in modo assolutamente proficuo in tutte le direzioni, come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La polizia giudiziaria lavorava con sacrifici enormi, perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti. Le persone informate dei fatti testimoniavano e offrivano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile, in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, senza insabbiamenti di quelle contro i poteri forti (come invece troppe volte accade). Questo modo di lavorare, il popolo calabrese – piaccia o non piaccia al sistema castale – lo ha capito, mostrandoci sostegno e solidarietà. Non è poco, signor Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo. E che lo Stato stesse funzionando lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tant’è vero che si sono subito affinate nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana. Non so se Ella, Signor Presidente, condivide la mia analisi. Ma a me pare che - dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese nel 1993 - le mafie hanno preso a istituzionalizzarsi. Hanno deciso di penetrare diffusamente nella cosa pubblica, nell’economia, nella finanza. Sono divenute il cancro della nostra democrazia. Controllano una parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica e nelle Istituzioni a tutti i livelli, nazionali e territoriali. Nemmeno la magistratura e le forze dell’ordine sono rimaste impermeabili. Si è creata un’autentica emergenza democratica, da sconfiggere in Italia e in Europa.

Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali, ma piegano le loro funzioni a interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto. Non mi dilungo oltre, perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.

Ebbene oggi, Signor Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato: si creerebbero nuovi martiri; magari, ai funerali di Stato, il popolo prenderebbe di nuovo a calci e sputi i simulacri del regime; l’Europa ci metterebbe sotto tutela. Non vale la pena rischiare, anzi non serve. Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace.

Che ci vuole del resto, signor Presidente, per trasferire un magistrato perbene, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, o per imbavagliare un giornalista che racconta i fatti? E’ tutto molto semplice, quasi banale. Ordinaria amministrazione.

Per allontanare i servitori dello Stato e del bene pubblico, bisogna prima isolarli, delegittimarli, diffamarli, calunniarli. A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato. La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo. Ebbene, in Calabria, mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine con ogni mezzo.

Quello che si è realizzato negli anni in Calabria sul piano investigativo è rimasto ignoto, in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva di farlo conoscere all’esterno. Il resto del Paese non doveva sapere. Si praticava la scomparsa dei fatti. Quando però le vicende sono cominciate a uscire dal territorio calabrese, l’azione di sabotaggio si è fatta ancor più violenta e repentina. Invece dello sbarco degli Alleati, c’è stato quello della borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese. L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, restituiva fiducia nelle Istituzioni, svelava i legami tra mafia “militare” e colletti bianchi, smascherava il saccheggio di denaro pubblico perpetrate da politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni a danno della stragrande maggioranza della popolazione, scoperchiava un mercato del lavoro piegato a interessi illeciti, squadernava il controllo del voto e, quindi, l’inquinamento e la confisca della democrazia.

Sono cose che non si possono far conoscere, signor Presidente. Altrimenti poi il popolo prende coscienza, capisce come si fanno affari sulla pelle dei più deboli, dissente e magari innesca quella democrazia partecipativa che spaventa il sistema di potere che opprime la nostra democrazia. Una presa di coscienza e conoscenza poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale. Lei, signor Presidente, dovrebbe conoscere – sempre quale Presidente del CSM - le attività messe in atto ai miei danni. Mi auguro che abbia assunto le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge e alla Costituzione. Avrà potuto così notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, professionisti, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Tutto ciò non era tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale. Come poteva un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il proprio mandato onestamente applicando la Costituzione? Signor Presidente, Lei - come altri esponenti delle Istituzioni - è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni. Perché, allora, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della nostra democrazia, cioè nelle più terribili collusioni tra criminalità organizzata e poteri deviati? Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi. Eppure avevo sperato in un Suo intervento, anche pubblico: ero ancora nella fase della mia ingenuità istituzionale. Mi illudevo nella neutralità, anzi nell’imparzialità dei pubblici poteri. Poi ho visto in volto, pagando il prezzo più amaro, l’ingiustizia senza fine.

Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere, come poi ha sancito l’Autorità Giudiziaria competente. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva e ha capito quel che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me l’ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare. Un affetto che costituisce per me un’inesauribile risorsa aurea.

Ho denunciato fatti gravissimi all’Autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza. Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa ancora una volta era sgradita al potere. E allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e ingiusto: la lezione impartita al sottoscritto non era stata sufficiente. La logica di regime del “colpirne uno per educarne cento” usata nei miei confronti non bastava ancora a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese. Ci voleva un altro segnale forte, proveniente dalle massime Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato, signor Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi e indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettono in pericolo il sistema criminale di potere su cui si regge, in parte, il nostro Paese.

Quando la Procura della Repubblica di Salerno – un pool di magistrati, non uno “antropologicamente diverso”, come nel mio caso – ha adottato nei confronti di insigni personaggi calabresi provvedimenti non graditi a quei poteri che avevano agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, ha fatto filtrare il messaggio perverso che era in atto una “lite fra Procure”, una guerra per bande. Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata, fra magistrati di Salerno e Catanzaro. C’era invece semplicemente, come capirebbe anche mio figlio di 5 anni, una Procura che indagava, ai sensi dell’art. 11 del Codice di procedura penale, su magistrati di un altro distretto. E questi, per ostacolare le indagini, hanno a loro volta indagato i colleghi che indagavano su di loro, e me quale loro istigatore. Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difende dalla ricerca della verità, tentando di nascondersi dietro lo schermo di una legalità solo apparente.

Questa menzogna è servita a buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di Pm) tre magistrati di Salerno, uno dei quali lasciato addirittura senza lavoro. Il messaggio doveva essere chiaro e inequivocabile: non deve accadere più, basta, capito?! Signor Presidente, io credo che Lei in questa vicenda abbia sbagliato. Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione. Ricordo bene il Suo intervento – devo dire, senza precedenti – dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno. Rimasi amareggiato, ma non meravigliato. Signor Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato di dosso la toga che avevo indossato con amore profondo. E il fatto che non mi sia stato più consentito di esercitare il mestiere stupendo di Pubblico ministero mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria. Un’azione inaccettabile come quella che ho subìto può strapparmi le amate funzioni, può spegnere il sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non può piegare la mia dignità, nè ledere la mia schiena dritta, nè scalfire il mio entusiasmo, nè corrodere la mia passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese. Nell’animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.

Nella Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, accompagnato dalla medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del nuovo percorso che ho intrapreso. Darò il mio contributo affinchè i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.

E’ per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’Ordine giudiziario, dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico. Lo faccio con un ulteriore impegno: quello di fare in modo che ciò che è successo a me non accada mai più a nessuno e che tanti giovani indossino la toga non con la mentalità burocratica e conformista magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente.

Luigi de Magistris Roma, 28 settembre 2009

MINISTRO GELMINI, LE SPIEGO PERCHE’ IL PROBLEMA E’ LEI.

LA LETTERA DI PIERGIORGIO ODIFREDDI

Signor ministro, leggo (o meglio, mi hanno segnalato di lettere) su Il Giornale di famiglia del presidente del Consiglio che sabato scorso, alla sedicente Festa della Libertà organizzata dall’altrettanto sedicente Popolo della Libertà al Palalido di Milano, moderata (si da per dire) dal condirettore dello stesso giornale, lei ha tuonato contro "l’intolleranza antisemita del superfluo matematico Piergiorgio Odifreddi, ex docente baby pensionato", che ha osato restituire il Premio Peano "quest’ anno assegnato a Giorgio Israel, ai suoi occhi colpevole di sionismo, ma soprattutto di essere consulente del ministro". Lei ha poi continuato, con stile e in punta di fioretto, dicendo che "gli imbecilli non mancano mai", e che "le parole di Odifreddi denotano razzismo, incapacità al confronto e stupidità". E ha terminato allargando il discorso, assimilando il mio gesto alla "modalità tipica della nostra sinistra, quella di combattere il governo e Silvio Berlusconi a qualunque prezzo, a costo di insultare allo stesso tempo la maggioranza dei cittadini che lo votano". Mi permetta di rispondere nel merito alle accuse che mi rivolge, fingendo che esse siano in buona fede e dettate dall’ignoranza dei fatti. Naturalmente non posso dir nulla sulla mia imbecillità e stupidità, e mi fido del suo giudizio: in fondo, lei è un valente avvocato che ha superato una difficile abilitazione a Reggio Calabria, dopo una laurea nella vicina Brescia e un precedente passaggio da un liceo pubblico a uno privato, mentre io sono soltanto un modesto docente universitario che ha vinto facili concorsi da assistente, associato e ordinario nell’Università pre-Gelmini, ed è poi andato in pensione dopo 38 anni e mezzo di servizio (e non dopo una sola legislatura in Parlamento). Ma non sono questi i motivi per cui io ritengo che la collaborazione con lei si configuri come una colpa, né penso affatto che il governo di cui lei fa parte sia da combattere a qualunque prezzo: riconosco anzi, benché dispiaciuto e vergognato, che Silvio Berlusconi abbia ricevuto una forte maggioranza e sia dunque democraticamente in diritto di governare il paese. Addirittura, pensi un po’, vorrei che a farlo cadere fosse un giudizio elettorale sul suo operato politico, e non una campagna giornalistica sulle sue scopate con le escort: soprattutto quando questa campagna è spalleggiata dall’Avvenire, che ha usato ben altri pesi e misure per la pedofilia ecclesiastica e per la sua copertura da parte dell’allora cardinal Ratzinger. Il mio problema è proprio lei, signor ministro. E non tanto, o non solo, perchè ricopre una carica per la quale non ha la minima competenza, ma anzitutto e soprattutto per innominabili motivazioni che hanno portato lei e la sua collega Mara Carfagna alla carica che ricoprite. Come vede, gli elettori che votano il suo partito o la sua coalizione non c’entrano proprio nulla, perchè non hanno eletto i ministri: c’entra invece la necessità etica di non collaborare con chi costituisce,m nella Roma di oggi, l’analogo dei cavalli-senatori di Caligola nella Roma di ieri. Il professor Israel è naturalmente liberissimo di pensarla diversamente, ma lo sono anch’io di dissentire, e di non voler condividere con lui l’albo d’oro di un premio. Se questa mia dissociazione vi turba, è perché non conoscete né la democrazia né la storia, anche scientifica. Ad esempio, quando negli anni del maccartismo Edward Teller collaborò con la commissione governativa che revocò l’autorizzazione di sicurezza nucleare a Robert Oppenheimer, la quasi totalità dei colleghi si dissociò da lui e gli tolse il saluto, ostracizzandolo della comunità dei fisici: in quell’occasione avreste attaccato pure loro, come ora attaccate me? La domanda è retorica, ma l’esempio non è campato in aria: Teller era infatti uno scienziato guerrafondaio e iperconservatore, della stessa pasta del Von Neumann al quale Israel ha dedicato la compiacente biografia che ha appunto ricevuto il Premio Peano. Ma ci sono altri motivi per dissociarsi da lui, oltre a quelli già accennati. Perchè, come ho detto espressamente nella mia lettera di rinuncia al premio, "le posizioni espresse da Israel in ambito politico, culturale e accademico sul suo blog, sul sito Informazione Corretta e in ripetuti interventi su Il Foglio e Il Giornale trascendono i limiti della normale dialettica, e si configurano come un pensiero fondamentalista col quale non intendo essere associato intellettualmente". Capisco ovviamente che quei due giornali, insieme a Libero e all’ala destra del Corriere, si siano sentiti chiamati in causa e abbiano immediatamente fatto quadrato intorno a Israel e contro di me. Ma mi sembra singolare che proprio da loro, e da lei, vengano accuse di razzismo e di intolleranza: non siete forse voi, la vostra coalizione e il vostro governo, a fomentare l’odio nei confronti degli immigrati in generale, e degli islamici in particolare, con parole e azioni ben più violente della democratica e innocua restituzione di un premio al mittente?
Capisco anche, ma non accetto di giocarlo con voi, il subdolo gioco dell’equiparazione della critica a un ebreo come Israel, a un sito sionista come Informazione Corretta, o a un governo israeliano come quello di Netanyau, con l’antisemitismo. E non lo accetto proprio perchè non sono razzista, e dunque non giudico a priori in base alla "razza"(ammesso che la parola abbia senso), ma a posteriori in base ai fatti: i razzisti veri sono altri, e cioè coloro per i quali tutti gli ebrei sono democratici, e tutti gli islamici fondamentalisti. E invece ci sono ebrei fondamentalisti e islamici democratici: negarlo significa fare di ogni erba un fascio, e a me i fasci non piacciono, di qualunque "razza" siano. Mi piacciono invece molti ebrei democratici, da Amos Luzzatto a Moni Ovadia a Noam Chomsky, dei quali sono amico, e sto benissimo anche con ebrei ortodossi come il premio Nobel per l’economia Robert Aumann. Sono i fondamentalisti che non mi piacciono, e se questo significa non essere simpatico a certa gente, compresa lei, sopravviverò bene ugualmente. Anzi, molto meglio che se fossi simpatico a loro e a lei.

in Il Fatto Quotidiano
01.10.2009

mercoledì 30 settembre 2009

Tutte le carte di Don Vito su Berlusconi Ecco le lettere in cui il boss mafioso chiede al Cavaliere di mettergli a disposizione una rete tv

Di Vincenzo Vasile

Il Fatto Quotidiano

30.09.2009


Le pagine che seguono sono state appena estromesse dal processo d’appello in corso contro Marcello Dell’Utri, perchè la Corte di Palermo ha giudicato “confuse e contraddittorie” le dichiarazioni sul conto dello stesso senatore e su Berlusconi rese – nell’ambito di un’altra inchiesta – alla Procura di Palermo da Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, ex-sindaco mafioso, che nel 2002 si portò nella tomba molti segreti su stragi e trattative. Il rampollo quarantacinquenne di don VIto comparve il 30 giugno e il primo luglio scorso, accompagnato dai suoi legali, davanti ai pm della Dda di Palermo, Antonino Ingroia e Antonino di Matteo. Di impappinò, chiese tempo per consultare gli avvocati. Ma poi ritrattò alcune mezze bugie e omissioni, che aveva inanellato nella prima fase, e fornì infine una sua lucida ricostruzione, che forma un affresco inquietante dei mesi dal 1991 al 1993, la fase delle bombe, dei massacri e dei negoziati occulti. Apprensione che pesa su Ciancimino jr.: se ha cincischiato, è perchè – così spiega ai magistrati – “se dobbiamo parlare di questo argomento, io ho tanta paura”. Questo fatto mi fa molta paura, perchè” si riferisce “al periodo stragista di mio padre”, e perchè “è un discorso cento volte più grande di me”. “Ho un terrore folle”. Il primo shock avviene ad apertura di interrogatorio, il 30 giugno. I magistrati mostrano all’”imputato di reato connesso”. Massimo Ciancimino, un documento che è stato sequestrato qualche tempo fa presso un magazzino della usa azienda di divani. E’ la metà di un foglio formato A4, sembrerebbe la seconda metà di un manoscritto vergato su un block notes. C’è scritto: “Posizione politica. Intendo portare il mio contributo che non sarà di poco, perchè questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento, onorevole Berlusconi, vorrà mettere a disposizione una delle sue rete televisive”. E’ la seconda metà di uno scritto, come mai? E l’ha mai visto prima il giovane Ciancimino? Di chi è la grafia? Qualcuno deve avere strappato il primo foglio, certo che l’ho già visto nella sua versione integrale – risponde Ciancimino – l’abbiamo conservato insieme a mio padre scollando un foglio nella controcopertina di un volume della Treccani nella casa di via san Sebastianello a Roma, sì l’ha scritto mio padre quel testo, chissà, nel 1999...

Dopo un’ora di interrogatorio Massimo Ciancimino chiede un rinvio all’indomani, promette di portare altre carte, e di spiegare meglio come mai in quell’appunto si parli di un “triste evento”, che sembra essere la minaccia di Cosa Nostra di sequestrare un figlio di Berlusconi. A le date non quadrano, particolari non combaciano. Solo l’indomani Ciancimino spiega di essere stato “impaurito” il giorno prima, non solo dalla stranezza di un documento trovato monco, ma perchè era “convinto che questo documento non venisse mai fuori: mi avete trovato non solo impreparato , più che altro impaurito, difatti come avete notato all’inizio ho addirittura detto che era la grafia di mio padre....”. macchè, non è né la grafia, né la prosa di Ciancimino, che non faceva errori di sintassi e grammatica. Si tratta di un “pizzino” di Bernardo Provenzano, che qualificandosi come il “signor Lo Verde” usava durante la latitanza il suo compaesano corleonese come mediatore in un complesso giro. Il pizzino sui “tristi eventi” fa parte di un gruppo di almeno tre lettere: la prima che risale al 1991-1992, è precedente alla redazione del famoso “papello” con cui Riina pretendeva la fine del carcere duro e misure draconiane contro i pentiti, fu ritirata a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, “una busta chiusa, non incollata”, nella villa di un braccio destro di Provenzano, Vito Lipari; un’altra in un’auto parcheggiata sotto lo studio di un medico e affidatagli personalmente da Provenzano; e una terza assieme a un pacco con 50 milioni, che Massimo poi distribuì ai fratelli. La lettera esibita dai pm durante l’interrogatorio dovrebbe essere, appunto, la terza. E’ indirizzata a Ciancimino sr., che in quel momento si trova in carcere, le altre due sono per il “dottor Marcello Dell’Utri”. Perchè Ciancimino veniva interpellato così spesso, sebbene agli arresti domiciliari e poi in carcere? “Per dare un parere”. Ciancimino era contrario a dar seguito alle minacce: sia le avvisaglie di stragi, sia la sfida dell’eliminazione del figlio del Cavaliere. “Io chiedevo a mio padre: perchè? Che c’entra il figlio?”, e papà conveniva che era meglio “toccargli il polso, tastarici u pusu” a Berlusconi, e in genere “alle persone”. “Nel senso di scuoterle”, cioè esercitare pressioni. Ma non passare al “braccio forte”. “Si preoccupava di non passare mai alla seconda fase”. “Mio padre era per la non attuazione delle minacce”, sebbene “il soggetto fosse irriconoscente” per certi favori, “certi vantaggi avuti, certe robe varie” che aveva ricevuto e non aveva ricambiato. Quale “soggetto”? Il dottor Berlusconi. Poi il padre si confida con Massimo: “era non dico rassegnato”, aveva un progetto per recuperare “un patrimonio elettorale che si stava disperdendo”, era come un “idealista”. Ma si sentì scaricato, proprio lui che “voleva essere l’uomo della chiusura, come il salvatore, che doveva siglare un nuovo patto”.

martedì 29 settembre 2009

La vera storia della marjuana


http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Flash&d_op=getit&id=11612

Santa Mafia - Petra Reski

http://www.nuovimondi.info/Article2281.html

dove poteva accadere un edificante episodio del genere, se non in Sicilia?

L'Akragas vince e il presidente inneggia al boss. Il questore sequestra il campo


Storie di calcio e di mafia. Il presidente della squadra dell'Akragas aveva inneggiato al boss dopo la vittoria. E ora il questore gli ha tolto il campo. Non potrà giocare più le partite del torneo di Eccellenza in casa. Il questore di Agrigento, Girolamo Di Fazio, ha ritirato per problemi di ordine pubblico la «licenza» di polizia che era stata concessa al presidente della società di calcio, Gioacchino Sferrazza, per potere svolgere «manifestazioni di pubblico spettacolo» come sono le gare sportive. «Le licenze di polizia - ha spiegato il questore Di Fazio - sono rilasciate "ad personam" e la storia personale del presidente dell'Akragas è cambiata dopo le sue dichiarazioni e quindi l'ho revocata».

L a vicenda inizia domenica quando Gioacchino Sferrazza si presenta ai giornalisti, dopo il successo per 5 a 0 contro lo Sporting Arenella (partita del campionato di Eccellenza) e, dallo stadio «Esseneto» di Agrigento, lancia il suo messaggio trasmesso in diretta da un'emittente radiofonica e dedica la vittoria della sua squadra al presunto capo mafia di Palma di Montechiaro Nicola Ribisi, arrestato il 17 settembre scorso dalla polizia. I cronisti, per la vwerità, glielo hanno detto che la dedica era "fuori luogo", ma per protesta, Sferrazza ha imposto ai giocatori e all'allenatore il silenzio stampa.

Quando ha capito di aver sbagliato era troppo tardi: «Ho dedicato la vittoria all' amico Nicola, non al boss mafioso». «Io - ha puntualizzato il presidente - non entro nel merito se sia colpevole o innocente: fino a quando non ci si sarà una condanna Nicola per me resta un amico che fino a dieci giorni fa era con noi sempre allo stadio».

28 settembre 2009-L'Unità